C’è voluta la paziente pazienza della redazione del Nikkei Times, il quotidiano giapponese che controlla il Financial Times, per ricostruire l’intero ciclo produttivo di un iPhone. Per dare vita allo smartphone è necessario assemblare la bellezza di 1.500 pezzi, frutto del costante lavoro di aggiornamento che corre tra la casa madre, i centri di ricerca di Taiwan e i centri di assemblaggio in Cina. Un sistema estremamente complesso, frutto di decenni di collaborazione, che solo con grande fatica Apple cerca di espandere in India e Vietnam.
Insomma, si fa presto a parlare di fine della globalizzazione. Ma l’economia sa prendersi la sua rivincita. Proviamo Jenseng Huang, il fondatore di Nvidia, l’ultima rock star balzata ai vertici dell’economia globale grazie al boom dell’Intelligenza Artificiale. Huang, emigrato negli Stati Uniti all’età di nove anni dalla sua nativa Taiwan, ha reagito all’embargo imposto da Washington su alcuni chip dell’azienda sviluppando a tempo di record un semiconduttore che non violasse le normative statunitensi per poter continuare i suoi affari con la Cina. «Gli Stati Uniti – ha detto – devono stare molto attenti a escludere Pechino dall’evoluzione del settore. Non è possibile sottovalutare una realtà frutto di ingenti investimenti». No, non è un’apertura politica a Xi, ma la constatazione che l’arma degli embarghi commerciali rischia di fare un po’ male a tutti, soprattutto nel mondo della tecnologia.
Prendiamo il caso della Corea del Sud, tra i protagonisti di un’alleanza, ancora da definire nei dettagli, che dovrebbe riunire Seoul, Taiwan, Giappone e USA per garantire l’intera filiera dei semiconduttori, in funzione anti-Cina. Una minaccia per Pechino che è corsa a chiamare il possibile bluff vietando alle sue aziende di acquistare memorie dall’americana Micron. Tanto, è stato il ragionamento, le aziende coreane Hynix e Samsung, presenti con stabilimenti in Cina, possono sostituire le importazioni dagli USA con memorie flash Dram e Nand di propria produzione. Ma la Corea del Sud sarà in grado di rifornire di memoria la Cina senza violare l’asse con Taiwan e, soprattutto, con gli USA? Un problema politico di non poco conto. Escludere la Cina dal commercio delle patatine può avere conseguenze molto gravi, avverte lo storico dell’economia, il conservatore Nial Ferguson: è stato l’embargo deciso da Roosevelt sulle materie prime a spingere i giapponesi a sferrare l’attacco a Pearl Harbor…
È in questo clima che negli USA si comincia a parlare di derisking come alternativa al decoupling. In altre parole, come mantenere relazioni commerciali equilibrate nonostante la presenza di forti contrasti politici, abbandonando così il muro contro muro a suon di sanzioni. Una scelta che, non a caso, interpreta i desideri dei big dell’economia, da Jamie Dimon a JP Morgan, per la prima volta dopo quattro anni in Cina, a Elon Musk, determinato a rafforzare i legami di Tesla con l’auto elettrica cinese più efficiente e aggressiva. Ma a far cambiare idea ai falchi Usa è l’impressione che la politica di embargo si stia rivelando un boomerang. Non solo il danno inflitto alla Russia sembra molto inferiore a quello sperato, ma si è creato un effetto opposto. Molti Paesi guardano con interesse ad alternative alla valuta statunitense per non rischiare di finire tra le vittime della guerra condotta attraverso il dollaro. Tra i primi a muoversi c’è il Brasile, che tratterà in yuan con Pechino. Ma l’accordo tra India e Malaysia per l’uso della rupia è recente. Senza dimenticare l’Arabia Saudita che ora scambia petrolio in yuan con la Cina. No, non è ancora tramontata l’egemonia del dollaro, che comunque rappresenta il 58 per cento delle riserve mondiali. Ma dopo la stagione della globalizzazione a tutti i costi e il suo contrario, una nuova stagione si prospetta nei rapporti con Pechino. Speriamo che la diplomazia italiana, di fronte al tema del rinnovo del trattato sulla Via della Seta, sappia guardare lontano.