«C’è un evidente parallelismo tra il problema della sostenibilità ambientale e quello della sostenibilità sociale. E ripeto sempre che abbiamo un bisogno estremo e urgente di un nuovo modello economico sostenibile, che faccia perno contemporaneamente su entrambe le leve, quella ambientale e quella sociale»: Pasquale Tridicoprofessore di diritto del lavoro all’Università Roma Tre e ora ex presidente dell’INPS, dopo l’inatteso blitz commissariale deciso dal governo Meloni a cambiare i vertici dell’Istituto e quello dell’Inail, pubblicato lo scorso 24 febbraio – e quindi ideato e scritto mesi prima – un libro importante, edito da Solferino, “Il lavoro di oggi la pensione di domani”, che appare quasi come un manifesto professionale da affidare alla classe dirigente di domani, qualunque essa sia.
Cosa intende, professore, per sostenibilità sociale?
Intendo sia quella che deve ispirare la gestione del mercato del lavoro e la stabilità e continuità delle carriere, sia quella previdenziale, che è diretta conseguenza dell’altra e che deve garantire la sostenibilità finanziaria delle pensioni. Vede, ricordo un’espressione molto forte di papa Francesco, che parla nella sua enciclica “Laudato si'” di ‘residui umani e residui ambientali’ e invita tutti a farvi i conti se vogliamo una società più inclusiva, attraverso la giuste politiche energetiche e sociali . Nel 2015, parlando alle Acli, il Papa ha detto anche un’altra cosa molto importante sul welfare, sottolineando che non può essere considerato un costo sociale ma deve essere visto come un mezzo, un mezzo per perseguire il benessere e la stabilità.
D’accordo: ma nei Paesi più sviluppati si profila una tempesta perfetta sul fronte delle pensioni. Diminuzione della natalità, allungamento della vita, disoccupazione… come far fronte?
C’è chiaramente un grande bisogno di ridistribuzione del reddito. Thomas Piketty ne parla chiaramente, nel suo “Capitale del 21° secolo”, partendo dai dati. Negli ultimi 30 anni abbiamo avuto un calo della quota dei salari sul Pil di circa 10 punti percentuali, a favore di qualcos’altro, che non è stato il capitale industriale o banalmente gli utili delle imprese, ma più propriamente le entrate finanziarie, con una conseguente forte accentuazione della disuguaglianza tra lavoro e capitale, intesa in senso lato.
Quindi estremo arricchimento di pochi e impoverimento di molti. Come si può invertire la tendenza?
Non certo come accade oggi, cioè continuando a basare il welfare solo sui contributi del lavoro. Nell’attuale metodo del prelievo, l’imponibile che utilizziamo per finanziare sia la spesa pubblica in generale che quella previdenziale in particolare è molto inferiore a quello utilizzato a metà del Novecento, quando il welfare era concepito sulla base dei contributi sociali. Oggi abbiamo spesso aziende con grandi fatturati ma, in proporzione, con molti meno addetti rispetto al passato, per le quali lo Stato aggredisce, con il prelievo, un fattore lavoro che rappresenta una parte limitata del valore generato dall’azienda. In sostanza, si tratta di società ad alta intensità di capitale che offrono un reddito imponibile inferiore. Al contrario, sul mercato abbiamo ancora molte aziende ad alta intensità di manodopera che si basano sulla manodopera, hanno personale molto numeroso – penso alle imprese di pulizie – ma che producono relativamente meno fatturato, e meno redditività, e quindi anch’esse sono scarse fonti di finanziamento. Occorre tornare a creare lavoro, e ovviamente buon lavoro, che possa restituire salari dignitosi e condizioni di lavoro dignitose, e salvaguardare la consistenza della base imponibile rappresentata dai salari. Ma non è abbastanza.
E cos’altro dobbiamo fare?
Dobbiamo capire che oltre al capitale e al lavoro esiste un terzo fattore di produzione, la tecnologia. Qualcosa che non è tangibile come gli esseri umani ma che produce valore aggiunto. È sfuggente alla tassazione, ma costituisce una forte concentrazione di valore. Piketty matura e avanza l’idea di una tassa globale sulla tecnologia, che ritroviamo in qualche modo nella formula della minima tassa globale che già esiste ma che è più un simbolo che altro, perché è difficile da quantificare e genera introiti minimi . Invece, su questo approccio, dobbiamo studiare nuovi fattori di produzione da cui ricavare redditi imponibili…
Pensate a una tassa sui robot, come l’ha chiamata Bill Gates, invocandola?
Se Gates ne ha parlato…
Torniamo al tuo libro: come lo riassumerebbe per noi?
Innanzitutto il libro sottolinea come negli ultimi anni ci sia stato un forte ritorno dello Stato nell’economia: con il Covid ma anche dopo il Covid, con l’allargamento della spesa sociale per servizi che prima non c’erano, da reddito di cittadinanza fino all’assegno unico. La rendita è costata 8 miliardi e l’assegno unico ne costa 18, sono due misure universali che vanno a braccetto. Sono anche la dimostrazione di come il welfare si sia allargato negli ultimi anni, è vero, ma secondo una visione strategica globale. Quella della difesa del Welfare State, come diceva Federico Caffè fin dal titolo del suo saggio “In difesa del welfare”.
Cosa ha detto Caffè?
Caffè ha affermato che il welfare è lo strumento principale attraverso il quale lo Stato ridistribuisce la ricchezza. Oggi si aggiunge la proattività del welfare, che non è compensativo ma accompagna la natalità nelle famiglie e accompagna anche i giovani verso la giusta formazione, che a sua volta determina inclusione ed è già più attiva di quanto abbiamo conosciuto nel Novecento, ma deve essere adattato alle nuove sfide. Ebbene: la distribuzione del lavoro prevede un sostegno al reddito. Devi fare formazione attiva e inclusione e devi lottare contro il declino demografico. Dovete farlo anche studiando le politiche di conciliazione, ad esempio donne e lavoro. Attraverso un’integrazione e una politica di accoglienza più forte che possano sopperire ai problemi del calo demografico, almeno nel breve termine.
Ma basterà l’intervento sulle regole fiscali per scongiurare una minaccia così grave come quella del default previdenziale?
Indubbiamente la sfida è formidabile, perché occorre disinnescare la mina del calo demografico che destabilizza i conti pensionistici. Il nostro sistema essenzialmente pay-as-you-go si basa sul numero di lavoratori attivi, e mentre oggi, nel 2023, andiamo in pensione i nati nel 1960, cioè 1 milione di contribuenti all’anno, nuovi contribuenti stanno entrando nel mercato del lavoro intorno al obiettivo. In questo modo, il gap che viene scontato nel mercato del lavoro viene integralmente trasferito al sistema pensionistico. C’è in Italia un giacimento di risorse da recuperare, ed è la vasta area, molto presente non solo al Sud, di economia inosservata da portare alla luce e ricondurre al fisco. Ma insomma, è chiaro che siamo di fronte alla sfida del secolo.