«Bisogna ridistribuire ai lavoratori gli utili delle aziende. Solo così potremo ricostituire una solida borghesia». Così il premier giapponese Fumio Kishida in una riunione straordinaria di governo alla presenza del nuovo governatore della Banca del Giappone, Kazuo Ueda, chiamato alla difficile missione di far emergere il Sol Levante dalla politica dei tassi sottozero che, pur avendo evitato molti i disastri nel tempo hanno ormai condannato il Giappone, divenuto una sorta di sportello automatico della speculazione finanziaria, a sopravvivere, nonostante una crescita anemica, a scapito dei salari, fanalino di coda del G7.
Ma nella terra dei samurai, quando decidi di cambiare, lo fai sul serio. È successo ai tempi dell’Abenomics, quando Tokyo ha portato sui mercati una pioggia di liquidità senza precedenti per sconfiggere il credit crunch. Succede oggi. A marzo, stagione dei rinnovi contrattuali, i sindacati si sono incontrati di fronte a uno scenario senza precedenti: Uniqlo, il colosso del commercio, ha aumentato i salari fino al 40%; Toyota ha fatto sapere ai sindacati che avrebbe rivisto al rialzo le loro richieste. Anche le piccole e medie imprese, molto meno facoltose, si sono dovute adeguare. Il risultato? I sindacati hanno reso noto che, in media, la stagione contrattuale si è chiusa con un aumento medio del 3,67%, un punto pieno in più rispetto alle attese. Bisogna risalire al 1993, all’inizio della lunga deflazione giapponese, per trovare un dato simile.
Un buon inizio, ma non basta: per rilanciare la crescita, il Giappone ha bisogno di rilanciare i consumi interni, cosa non possibile senza un aumento dei salari accompagnato da una corporate governance in linea con gli standard statunitensi. E così l’obiettivo di stipendi che consentano un viaggio in più a Ginza o lo shopping nelle boutique di Omotesando si accompagna a una politica più attenta alle richieste del mercato. Si moltiplicano così le società che hanno annunciato o avviato piani di riacquisto delle proprie azioni, spesso trattate in Borsa a un prezzo inferiore al valore di libro.
Mitsubishi Corp. ha dichiarato il 9 maggio che intende riacquistare fino a 2,2 miliardi di dollari di azioni. Il mese scorso, le aziende tecnologiche Hitachi Ltd. e Fujitsu Ltd. hanno annunciato considerevoli piani di riacquisto. Altri seguiranno presto secondo Goldman Sachs: “Rileviamo fondamentali solidi, rispetto alle azioni del mercato estero, e pensiamo che le aspettative di cambiamenti/riforme strutturali potrebbero spingere ulteriormente le azioni giapponesi al rialzo”, hanno scritto gli strateghi della banca.
Un risveglio che non è sfuggito all’attenzione dei mercati finanziari. Anzi: ad aprire la strada a Tokyo è stato il maestro Warren Buffett, il primo ad investire, raddoppiando il capitale, nelle cinque società che controllano il commercio dell’isola. E dopo la “benedizione” del saggio di Omaha, ufficializzato attraverso un’intervista al Nikkei Times in cui Buffet annunciava altri acquisti, si è diffusa la speranza che gli investimenti esteri possano tornare in massa: gli afflussi dall’estero hanno raggiunto un patrimonio netto di 22 miliardi di dollari in azioni ad aprile, un record.
Ripresa dei consumi, rilancio degli investimenti (anche il “nemico” coreano Samsung aprirà una fabbrica di chip), graduale uscita dalla trappola del rendimento zero, la ripresa dei listini non stupisce: l’indice Nikkei 225 viaggia ai massimi da novembre 2021 dopo essere cresciuto dal 1° gennaio, è cresciuto del +7,80% (in euro), confermandosi tra i migliori dell’area Asia-Pacifico nel corso del 2023. L’altro indice di riferimento, il Topix, è balzato ai massimi degli ultimi 33 anni o dall’agosto 1990. Insomma, aumentare i salari fa bene a tutti.
L’articolo E se prendessimo il Giappone come esempio? Da Rivista di economia.