Ccontraddizioni (e paradossi) del mondo globale. È meglio pagare di più imposte sui profitti generato dal boom del prezzo del petrolio (greggio e gas) o è meglio indirizzare queste risorse (più di 200 miliardi di euro solo in Europa) a investimenti verdialle energie rinnovabili contribuendo così a salvare il pianeta (e, in futuro, anche i bilanci)?
I colossi petroliferi hanno dimostrato finora (ma vedremo per quanto tempo) di preferire la prima opzione (più tasse) come ha fatto BP qualche mese fa, Petrolio Britannicoche non accolse la proposta dell’allora Ministro della Caro Rishi Sunak (oggi premier) di dirottare parte di guadagni creato dall’aumento dei prezzi delle materie prime investendo nel settore delle energie rinnovabili (vento E fotovoltaico) in cambio di uno sgravio fiscale e ha scelto, al contrario, di concederli super profitti ad un piano di acquisto di azioni proprie che ha fatto felici gli azionisti anche a costo di una “soffiotassa mai vista prima (perché il ministro Sunak immediatamente risposto con una tassa eccezionale).
Ma così sia. I vecchi giganti dell’energia fossile come gli inglesi BPcome i francesi Totale (che si è sforzata di aggiungere la parolina “Energie” al vecchio nome solo per il gusto di pulisci la tua coscienza) e molti altri (tra cui ilEni Di De Scalzi ben supportato da governo Meloni), da quanto si evince dalle dichiarazioni dei loro amministratori delegati e dalle relazioni sui ricchissimi bilanci 2022 appena presentati in queste settimane di assemblee, tra aprile e maggio, non hanno nessuna intenzione di distogliere una parte del gigantesco profitti realizzati nell’anno di guerra in Ucraina – più di 200 miliardi di euro come accennato in precedenza, contando solo i ricavi delle compagnie petrolifere europee – nel settore delle energie rinnovabili come richiesto dai governi e dagli azionisti più sensibili problemi del pianeta (in genere si tratta di associazioni e fondi specializzati che attualmente si battono anche per affermare il diritto del cosiddetto “dire sul clima”, ovvero il diritto delle assemblee di spingere, con il proprio voto, il management a collocare una percentuale degli utili non nei portafogli dei soci ma sul mercato, appunto, delle rinnovabili).
Uno scandalo da voracità finanziaria o una gestione oculata dei budget come cercherò di spiegare in seguito? Anche il presidente americano si è scandalizzato Joe Biden che nel suo discorso sullo stato dell’Unione lo scorso 8 febbraio ha avuto parole dure contro le grandi compagnie petrolifere e ha minacciato di quadruplicare la tassa sull’acquisto di azioni proprie con l’obiettivo di incoraggiare le imprese a investire a lungo termine nelle rinnovabili (sostenuto, in questo, dall’ex capo economista di Fondo monetario internazionaleil francese Olivier Blanchardprofessore al MIT e ad Harvard, secondo il quale altrimenti non esiste “rien de mal à taxer ces profit exceptionnels”).
Ma oltre ilindignazione (dell’opinione pubblica e della politica), le compagnie petrolifere ne hanno ancora buona ragione preferire le tasse agli investimenti nelle rinnovabili. In effetti, i loro azionisti sono (ben) abituati da tempo alti rendimentiobbiettivo attualmente impossibile con investimenti verdi. È per questo motivo che le società europee, come BP o Total o Eni, sono meno quotate in borsa rispetto alle loro controparti americane con cui devono competere sui mercati globali.
Inoltre, c’è anche un motivo microeconomia che complica la vita ai giganti del petrolio e del gas. Perché una grande compagnia petrolifera sa come trattare con gli stati per i grandi”AffareEnergia (è il suo DNA), ma non è detto che sappia affrontare quel sistema allo stesso modo autorità pubbliche (enti locali, agenzie, ecc.) che rappresentano il “sotto” del mercato delle energie rinnovabili. In altre parole, i petrolieri non sono a loro agio trattare con le reti e questo avrebbe certamente effetti negativi sulla redditività di eventuali investimenti “verdi”.
A questo punto non rimarrebbe altro che il leva fiscale: ad esempio il famoso “imposta sul carbone” tentato (male) dalla presidenza Macron in Francia che ha scatenato la mezza rivolta del gilet giallima gli economisti sottolineano che una tassa di questo tipo dovrebbe essere universale, vale a dire applicata a tutti gli stati (almeno in Europa).
Forse un ruolo potrebbe essere svolto da loro istituzioni internazionalivere sentinelle della globalizzazione, come la Banca Mondiale (dove, tra l’altro, è appena arrivato – il 23 febbraio – un nuovo presidente sensibile ai problemi ambientali – a differenza del suo predecessore climatoscetticocome Ajay Banga, indiano, candidato di Biden) e come la Banca europea per gli investimenti guidata dal tedesco Werner Hoyer, quella che nel 2019 ha lanciato il programma “1 trilione per 1,5°”, un trilione per poter abbassare di grado e mezzo riscaldamento globale: di buon auspicio, senza dubbio, ammesso che le compagnie petrolifere vogliano uscire dal vecchio mondo delle energie fossili e delle sue contraddizioni.
Contraddizione n. 2, la Germania preferisce la recessione
Un altro tema dell’economia globale che dimostra di non saper uscire dalle contraddizioni, in questo caso tra bassa crescita e alta inflazioneè il patron della Bundesbank, Joachin Nagel, che è anche un membro influente del consiglio dei governatori della BCE ed è considerato l’uomo che sussurra all’orecchio della presidente Christine Lagarde, quella che si è presentata due anni fa (e è ancora) come l’anti-Drago per eccellenza, il grande nemico del “facilitazione per quantità” e politiche monetarie accomodanti.
Il banchiere centrale tedesco è ancora prigioniero della contraddizione tra un Paese – la sua Germania – che non cresce e che resta prigioniero delle politiche restrittive di Francoforte.
La soluzione, drastica se non drammatica, adombrata, anzi apertamente dichiarata da Nagel durante una “lectio magistralis” all’università di Harvard negli USA (nel paese che ha istituito sussidi da 2 trilioni di dollari per sostenere la propria industria a partire dall’IRA, l’Inflaction Reduction Act) è, pensateci bene, la recessione (testo: “ La recessione è uno dei possibili soluzioni per uscire dalla crisi”.
Che cos’è angoscia Nagel? I dati appena diffusi dai computer di Destatis, Statistiches Bundesamt, l’Istat tedesco, secondo i quali “la Germania è più debole di quanto sembri” come titolava, con una certa malcelata soddisfazione, il quotidiano economico francese, “Gli Echi”.
Vediamo: negli ultimi tre anni (’19-’22) la Germania ha creato 577mila posti di lavoro, ma di questi 565mila (pari al 98%) sono pubblici mentre il settore privatonello stesso periodo, perse 316 milioni di ore lavorate pari a 923mila posti di lavoro (nel settore industriale le ore perse furono 155 milioni pari a 430mila posti di lavoro).
Il calo dell’occupazione e l’aumento dell’inflazione hanno provocato il crollo dei consumi e degli investimenti (solo nel settore delle costruzioni si registra un -3% mentre il livello di investimenti industrialii alla fine del 2022 era inferiore rispetto al 2019). La bilancia commerciale è ancora attiva, è vero, ma solo per l’aumento dei prezzi all’esportazione, non per quello crescita dei volumi.
Insomma, nelle parole di Les Echos, “l’economia tedesca è fragile”. Avrebbe bisogno di una cura del drago, ma il suo burbero banchiere centrale preferisce una recessione. Una contraddizione mortale.