C’era una volta un ente pubblico che, per legge, non poteva spendere più di una certa percentuale del proprio budget in dispositivi medici, compresi quelli salvavita. Ma se andava oltre, l’azienda che forniva i dispositivi doveva pagare la metà della spesa in eccesso! Non è una favola distopico-burocratica per le Pmi italiane, ma quello che è successo davvero con le cosiddette rimborsi, con un’aggravante: 7 anni dopo le aziende hanno appreso delle cifre altissime che avrebbero dovuto pagare a causa degli sforamenti delle Regioni, e ora rischiano il fallimento, lasciando gli ospedali senza dispositivi di dialisi, stent cardiaci, valvole, protesi, chirurgici chirurgia strumentale. A meno che questa legge, candidata al primato di peggiore degli ultimi anni nonostante la forte concorrenza, non venga cancellata per manifesta assurdità. Per fare un paio di esempi, Giocato in Sardegna dovrebbe fruttare 324mila euro a fronte di un fatturato annuo di 224mila, Duerre in Toscana 4,6 milioni quando il fatturato annuo si ferma a 4…
Ma che responsabilità hanno queste Pmi, che hanno partecipato a periodiche aste, nel fatto che le Regioni abbiano superato i limiti di spesa previsti dalla legge? La scadenza per il pagamento dei fornitori di sistemi sanitari è stata spostata dal 15 gennaio al 30 aprile. Ma se la legge non viene abrogata, centinaia di imprese e migliaia di posti di lavoro sono a rischio. «Nel 2019 il SSN ha comprato dispositivi medici per circa 6 miliardi di euro, pari al 5,4% del suo budget» dice Massimo Riem (nella foto), presidente di Fifo Sanità Confcommercio, Federazione italiana fornitori ospedalieri, «sommando la spesa pubblica e privata in dispositivi medici, si ottiene una spesa complessiva pro capite tra le più basse d’Europa, pari a circa 190.000 euro contro una media di 213.000, ma in Germania è 373.000 . Nonostante ciò, anni fa è stata varata una legge che fissa un tetto di spesa ancora più basso, pari al 4,4%. Al di sopra di tale tetto, il payback prevede che le imprese debbano rimborsare il 50% della spesa regionale effettuata in eccesso. Una legge ingiusta e altamente vessatoria”. “Il payback nasce con l’intento di contenere la spesa sanitaria, obiettivo giusto, ma è lo strumento stesso ad essere sbagliato, perché toglie responsabilità agli amministratori pubblici ribaltando eventuali errori di gestione e la pianificazione degli acquisti sui privati” afferma l’avvocato Michele Grandi, esperto in contratti pubblici. «Inoltre, i contratti vengono stipulati a seguito di procedure di gara che hanno proprio lo scopo di contenere i costi. Allora come può un’azienda avere ulteriori margini per restituire parte del prezzo ricevuto?». «Il payback non può essere una soluzione per risanare i bilanci di alcune Regioni a discapito delle piccole e medie imprese, che peraltro sono già in forte sofferenza per le politiche di acquisto dei prezzi più bassi, oltre che per la pandemia» dice Giorgio Sandrolini, imprenditore di una piccola azienda operante nel settore dei dispositivi medici. “Nel nostro Paese sono circa 4.000 le imprese del settore, di cui il 95% Pmi, con oltre 76.000 addetti: un numero che si ridurrà drasticamente se non verrà ritirato il payback”.
Ma qual è la storia di questa legge così palesemente ingiusta? Nel 2011 il Governo Monti introduce un tetto alla spesa pubblica per i dispositivi medici. Originariamente fissato al 5,2% della cassa sanitaria ordinaria, il tetto in questione è stato successivamente oggetto di ripetute revisioni al ribasso che lo hanno portato prima al 4,9%, poi al 4,8% e infine al 4,4% a partire dal 2014. «La logica di queste revisioni ha è sempre stata di natura contabile, mai economica, cioè ha sempre significato dare copertura puramente cartacea alle varie ipotesi finanziarie che si sono susseguite, prescindendo dalle valutazioni circa l’adeguatezza del plafond rispetto ai livelli di intervento garantire» sottolinea Riem. Le Regioni sforano il tetto, lo Stato accontenta, finché nel 2015 il Governo Renzi avvia il payback, stabilendo che, in caso di sconfinamento da parte di una Regione, una parte (pari al 40% nel 2015, 45% nel 2016 e 50% dal 2017) della spesa eccedente debba essere rimborsata dalle imprese fornitrici (ciascuna pro-quota, probabilmente sulla base dell’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa nella regione considerata). «Dovevano essere varati decreti attuativi, erano previsti una serie di passaggi che sono stati totalmente disattesi» spiega il presidente della Fifo. “Fino ad agosto 2022 Daniele Franco, Ministro dell’Economia e delle Finanze del governo Draghi che aveva iscritto tali voci deficitarie nel bilancio dello Stato, con un unico decreto attuativo certifica i disavanzi delle Regioni dal 2015 al 2018, impone alle Regioni di iscriverli a bilancio per non essere commissariati, di certificare gli importi e di richiedere il pagamento degli importi congiuntamente entro il 15 gennaio di quest’anno a tutte le imprese Regione per Regione». Solo per i primi 4 anni l’importo da rimborsare alle imprese è pari a 2,1 miliardi, ma se includiamo anche il 2019 e il 2020, secondo calcoli Fifo, arriviamo a 3,6-3,7 miliardi. Ci sono Regioni che hanno superato di più, come Toscana e Puglia, perché hanno un fortissimo impatto sulla salute pubblica: c’è quindi anche un tema di incoerenza della norma su base territoriale. «La tempistica dell’attuazione della legge è stata del tutto inaspettata» sottolinea Riem. «Nessuno poteva ragionevolmente pensare che dopo 7 anni di totale inattività il Governo Draghi come ultimo atto avrebbe varato un decreto che conteneva una scadenza al 15 gennaio per il rimborso. Un decreto chiamato Aiuti bis: se questo è il modo per aiutare le imprese…».
A quel punto Fifo ha dimostrato la totale incongruenza di questa regola. «Non siamo riusciti ad incardinare la soluzione sulla manovra per un problema di risorse, ma il governo ha varato un decreto con proroga al 30 aprile», osserva il presidente della Fifo. «La sola sospensione è un passaggio necessario ma non sufficiente per tutelare le migliaia di aziende che sostengono il sistema sanitario nazionale. Auspichiamo un tavolo tecnico urgente per un confronto sul superamento della norma stessa. Siamo favorevoli all’innalzamento del tetto della spesa sanitaria dal 4,4% al 5,2% della spesa pubblica totale, in linea con la media europea e con i precedenti dati di consumo nazionale”. L’altro paradosso è che le aziende, anche se costrette a pagare il rimborso, non potrebbero interrompere le forniture, perché sarebbe un’interruzione del servizio pubblico. “Produrremmo un deficit per noi ma non potremmo sospendere il servizio” rimarca Riem, “ma se le aziende falliscono allora lo sospenderanno”. Ora la palla passa a governo Meloni. «Stiamo lavorando da mesi con le istituzioni per far comprendere i rischi per la sanità italiana e per le aziende del settore che stanno per essere messe in ginocchio dal payback», aggiunge Riem. «I fornitori di dispositivi medici micro, piccoli e medi non potrebbero mai superare tali richieste, siamo riusciti a dare loro un piccolo colpo al braccio. Ma sappiamo che questa sospensione non è la soluzione al problema. Ora chiediamo urgentemente di definire il superamento del payback sui dispositivi medici, precisando che la responsabilità di eventuali sforamenti pregressi e futuri deve restare alle singole Regioni”.